di Gianfranco PARIS

A settembre di ogni anno ricorre l’anniversario di uno dei più brutti episodi della seconda guerra mondiale. Brutto non tanto per la quantità dei morti, ma per le modalità con cui tedeschi si “vendicarono” dell’armistizio che il Governo italiano presieduto da Badoglio aveva stipulato a Cassibile con gli Alleati con l’approvazione di Vittorio Emauele III di Savoia. Dopo le batoste prese in Africa ad opera degli inglesi, dopo il fallimento della campagna di Russia voluta da Hitler che non aveva tratto nessuna lezione dalla disfatta napoleonica di un secolo e mezzo prima, la guerra appariva ormai compromessa. Gli Alleati bombardavano tutto il suolo d’Italia rimasto sotto il controllo della repubblica di Salò, la fame iniziava a far sentire i suoi effetti su tutta la popolazione. Il nostro esercito, alleato con i tedeschi, contava ancora una forte presenza nell’est dell’Europa e mantenerlo non era un’operazione facile. Per noi ormai, qualunque fosse stato l’esito della guerra, anche nell’ipostesi assurda di una vittoria dell’Asse, sarebbe finita male perché comunque saremmo divenuti satelliti di un grande Reich. Continuare a perdere vite umane e a far soffrire la popolazione non sembrava una cosa intelligente. Così fu chiesto l’armistizio e la cessazione delle attività belliche. Gli Alleati accettarono pur imponendo condizioni gravosissime, e l’8 settembre Badoglio dette alla radio l’annuncio tanto atteso che gli italiani tutti, quelli a casa e quelli in armi, salutarono con grandi manifestazioni di gioia.

C’era però da aspettarsi che i tedeschi non l’avrebbero presa bene, ed un governo giudizioso e coerente rispetto alla decisione presa avrebbe dovuto predisporre un piano adeguato e con ordini precisi a tutte le unità militari per far fronte all’inevitabile reazione di Hitler. Ma così non fu. Badoglio e il re fellone si preoccuparono solo di salvare la pellaccia e, dato l’annuncio, fuggirono a Bari come due lazzaroni nel luogo più lontano da una possibile rappresaglia dei tedeschi. Il coraggio dei Savoia e dei nostri governanti nutre la satira dei giornali di tutto il mondo.
Così i militari italiani sparsi nei vari fronti di guerra furono lasciati senza istruzioni alla mercè della vendetta di Hitler, costretti alla tattica del fai da te.
Tra i tanti anche la Divisione Acqui che presidiava l’isola di Cefalonia, situata in una posizione strategica di difesa del mare Ionio e di quello Adriatico, quella stessa che aveva consentito ai Doge di rendere sicure le rotte di quelle parti che portavano merci pregiate dall’Oriente a Venezia per cinque secoli.
La divisione Aqui era schierata molto bene a difesa dell’isola. Il grosso a sud, da dove potevano arrivare i maggiori pericoli dalla flotta inglese che spadroneggiava nel Mediterraneo dal 1942, dopo la disfatta della nostra potente flotta all’inizio della guerra causata dalle notizie decrittate dagli inglesi ai tedeschi sulla posizione delle nostre navi, e a seguito dell’attacco temerario del porto di Taranto.
Il resto nel nord, come posizione di rincalzo in caso di difficoltà della difesa del sud.
L’armistizio colse il comandante di sorpresa, chiese istruzioni al comando di stato maggiore ma non ne ebbe, né ne poteva avere perché non erano state elaborate. Quando i tedeschi intimarono di consegnare le armi e di arrendersi, non trovò di meglio che riunire tutti gli ufficiali e decidere insieme quale atteggiamento assumere. Fu deciso a stragrande maggioranza di non arrendersi e di resistere. Cosa che fu fatta anche con qualche risultato positivo fino al 16 settembre. Infatti fu sventato un primo tentativo di sbarco di unità tedesche nei pressi di Orgostoli, il centro più importante dell’isola. Ma il secondo non fu possibile respingerlo. Così iniziarono aspri combattimenti a terra. A questo punto la Divisione contava ancora oltre cinquemila effettivi ed era in grado di combattere. Il comandante tedesco ricorse ad un tranello. Invitò gli italiani alla resa sottintendendo l’applicazione delle norme internazionali che regolano gli eserciti in armi.
Dopo un lungo conciliabolo gli ufficiali italiani decisero di arrendersi, anche perché non avrebbero più potuto resistere a lungo senza rifornimenti e senza rinforzi di fronte alle forze tedesche che aumentavano di giorno in giorno.
Consegnate la armi però il comandante non considerò gli italiani come prigionieri di guerra, bensì come traditori. Cosa che non poteva fare perché l’armistizio di Cassibile, firmato da un governo italiano legittimo aveva trasformato i due eserciti, quello italiano e quello tedesco, da alleati a nemici belligeranti, con la conseguente applicazione delle norme internazionali che regolavano la materia.
E con l’approvazione di Hitler ordinò la fucilazione di cinquecentocinquanta ufficiali e di cinquemila sottufficiali e soldati. Un assassinio in piena regola compiuto tra il 23 e il 25 di settembre che rimarrà per sempre a testimoniare di come un popolo possa diventare un branco di belve se a governarlo riesce ad arrivarci una belva capobranco.
In occasione dell’anniversario di quest’anno mi sono recato ad Orgostoli alla ricerca dei luoghi di tanto efferato episodio. Qualche anno fa mi recai a in Montenegro a visitare i luoghi della resistenza dei militari italiani della Divisione Garibaldi, costituita dai resti della Divisione Venezia, della quale facevano parte tanti fanti reatini e sabini che si trovavano in Montenegro nel settembre del 1943, e della Divisione cuneense degli alpini piemontesi.
Ho sempre ritenuto che la conoscenza della storia e la memoria di ciò che è accaduto in tempi più recenti sia necessaria per capire come comportarsi nel mondo dell’oggi. Di recente il dott. Grossi, l’ex provveditore degli studi di Grosseto, che vive ancora a Rieti, mi ha raccontato che Egli è uno dei sopravvissuti di Cefalonia per caso, non per grazia dei tedeschi perché, in forza alla Acqui fino al settembre del 1943, fu rimpatriato tre o quattro giorni prima dell’annuncio dell’ armistizio. Fu in occasione del sessantesimo anniversario, e vissi con Lui un momento di vera commozione.
Da qualche anno, finalmente il Governo italiano ha provveduto a realizzare un Memoriale (nella foto) nei luoghi dell’eccidio, sulla collina appena sopra la città. Gli americani hanno seminato il mondo di questi Memorial in onore dei loro caduti, e lo fanno tempestivamente. Dopo oltre 50 anni lo abbiamo fatto anche noi per gli assassinati di Cefalonia, meglio tardi che mai.
Si tratta di un sobrio monumento, ben tenuto, nel quale si possono leggere le notizie necessarie dei fatti accaduti che ispirano sentimenti di pietà e di condanna dei responsabili. Più oltre, a qualche centinaio di metri la fossa dove furono ammucchiati dopo la fucilazione 136 ufficiali.
Ho incontrato sul luogo una coppia di italo-americani in vacanza a Cefalonia che erano venuti a rendere omaggio anche loro ai connazionali, la cosa mi ha emozionato non poco.
Ho pensato di raccontare questa mia esperienza nell’isola di Cefalonia e di parteciparla ai lettori perché ritengo che oggi più che mai bisogna tener viva la memoria di fatti esecrandi allo scopo di evocare la necessità che non si debbano più ripetere.